Luciano Michilin

12.10.2012 09:09
    • Voglio regalarvi un racconto e l'intervista a Luciano Michilin, il cui animo profondo vi coinvolgerà.
       
      Angeli, Luciano Michilin

      Le luci sono spente, nel mondo le distanze hanno i nomi di Andromeda, Pegaso, Cassiopea; la solitudine è nelle vene e non riguarda più la comparsa della vita in senso generale, è un fattore intimo, individuale, congenito. Tutto si interrompe, ne ha l’obbligo, ma mi sento ancora respirare. “Ovunque” è una parola che nasce, non una possibilità. Sogno di sognare e mi accorgo di mimare con le labbra, in modo distratto, un sogno che mai sarà un vero sogno. Il tatto è sempre un cammino lungo qualcosa: il lenzuolo conduce in un viale sordo. Non c’è sonno per i dannati. I pre-destinati ai tormenti del sistema lunare. Mi volto, come si volterebbe qualsiasi uomo, forse più attento alle circostanze, con gesti omologati al contegno del silenzio, finalizzati al raggiungimento di un’inutile posizione che si perderà nella memoria di una più considerevole e vasta esistenza.
      Non so più meravigliarmi dei miei occhi. Quelli che da anni osservo riflessi sul vetro della finestra quando assumo questa posizione. Tutto il peso del corpo grava sul mio fianco sinistro. La mia sagoma, e tutto ciò che segue immobile, sono ripetuti per ogni volta che mi sono voltato solo in questa stanza.
      Tempo fa ero ancora capace di meravigliarmi. Dei colori della tenda, della forma del lampadario, della luce e delle ombre, del mio nome. Dei miei occhi, così simili a quelli di mia madre. Ho sempre chiesto a quel riflesso se forme somatiche simili corrispondessero ad una similitudine di alcuni frammenti del carattere. Mia madre. La vidi realmente solo una volta. Aveva negli occhi, attraverso quella patina lucida che li rendeva costantemente traballanti sul filo della tristezza, un vuoto impossibile da alleviare, un vuoto avvolto, intrecciato ai giorni passati. Non è vero ciò che dice la gente, le cose irreversibili esistono e sono tutte legate a ciò che non si può ripercorrere, il passato. In mia madre questa consapevolezza formava quel grado accettabile di odio che ogni essere umano è in grado di nascondere attraverso la simulazione di una condotta di vita comunemente definita normale. Mia madre amava. Amava con i gesti e gli atteggiamenti che soffocano. Amava tenendoci legati al cordone ombelicale. E stringeva, stringeva facendo male ogni volta che un vento buono o cattivo minacciava di portarci lontani da lei. Mia madre ci rimboccava le coperte. Metodica, incapace di uscire dal recinto delle regole che lei stessa aveva stabilito per paura di sbagliare. E per paura di sbagliare, lei sbagliava. Un giorno io la vidi per la prima volta, la vidi attraverso gli occhi. Vidi il suo amore sbagliato, la vidi attraverso quella patina lucida che sfigurava l’intero suo viso. La vidi, mentre ci amava, nel solito gesto. E vidi anche il suo gesto, compulsivo, attento , meticoloso, patologico. La vidi mentre copriva il mio petto con le lenzuola e mi accarezzava la fronte osservandola con preoccupazione, come se non accettasse che fosse altro oltre le sue dita. Così amava mia madre. Coi gesti sofferti e autolesionistici di una penitenza interiore e di una privazione identica alla cieca passione di Cristo. Identica alla colorazione di ogni abisso umano. Identica all’odio. Mia madre era nel giusto, era buona quando voleva che mio padre, il suo ex marito, fosse per noi una presenza, ma non gli permetteva di essere presente. Non gli permetteva di essere un padre. Era gelosa, ma non lo ammetteva a se stessa. L’umano tormento è sempre una contraddizione umanamente inaccettabile di cui si conosce appena l’odore, mai la forma. Mia madre amava piangendo. Mai davanti a noi. Ma io sapevo quando lo faceva, la vedevo stringere i denti e quella patina lucida via via si faceva più spessa, fino a nasconderle il colore delle pupille, fino a costringerla a fuggire da se stessa, nella sua stanza. Quando mio padre abitava insieme a noi mia madre si rifugiava nelle parole. Le urlava impedendo alla stanchezza che traspariva dalla sua voce di diventare una debolezza tangibile. E tutto il detto e il non detto formava una pellicola protettiva in cui proteggersi, proteggerci. Mia madre odiava. E me ne accorsi solo una volta, poiché la guardai realmente solo una volta, un giorno, mentre copriva il mio petto con le coperte. Mia madre trovò come tutti un capro espiatorio, una via d’uscita nel labirinto della follia, la trovò nella figura di mio padre. L’odio primordiale, materno, solo materno. L’odio che chiama se stesso col nome dell’Amore. L’odio che cresce schiacciato dal rigore dei gesti d’amore. L’odio. Quando sentii mio padre urlare disperato i nostri nomi mentre veniva trascinato dalle forze dell’ordine chiamate da mia madre. L’odio che non conosce l’umana pietà e che cancella il sottile velo che ci ha resi per un caso dotati di ragione.
      Mi rimboccava le coperte mia madre, mentre uccideva mio padre togliendogli la possibilità di vederci e dicendoci “vostro padre vi ama”, vostro padre vi ama. Mia madre aveva ben definito la figura di Peter, mio padre, attraverso le deformazioni di un cristallo, di un gioco di trasparenze e riflessi adiacenti o paralleli. L’aveva definito attraverso la reiterazione di un pensiero che lo inchiodava all’appartenenza di un sesso opposto al suo. Noi invece non eravamo maschi, né eravamo femmine. Noi eravamo i suoi figli. Noi eravamo suoi. Noi eravamo angeli.
      Mio padre, Peter, il nove gennaio del duemilatre, il venticinquesimo giorno lontano da noi, vessato dal peso della solitudine, si uccise lasciandosi cadere nel vuoto.
    • Mia madre uccise mio fratello Jonny due giorni prima, il giorno stesso in cui io la vidi realmente per la prima volta. Lo fece dopo avermi rimboccato le coperte.
      La bilancia che decide le sorti degli individui, nello stesso gesto carico d’amore o di odio, cadde dalla parte degli angeli.
      Noi siamo angeli.
 
 
- Ciao Luciano, prima di questa breve intervista abbiamo letto il tuo racconto, uno dei tanti, pubblicato su letteratu.it. In "Angeli" hai scelto un tema molto forte e struggente.
 
Lo ammetto, è la prima intervista che mi fanno, pertanto credo sia lecita ogni titubanza circa le prime parole da scrivere. Un “ciao” mi sembra troppo scontato. Mi piacerebbe trovare un incipit che indichi una certa informalità nonché un’umiltà dovuta. Ma non ce la farò mai, troppe cose da incastrare in poche parole (sensazioni e sembianze). Dunque, semplicemente, ciao a tutti.
 
Riguardo alla domanda. Ho scelto un tema forte, è vero, ma anche attuale. Sulla separazione ci sarebbero tante le cose da dire, rischiando anche di cadere nel banale o nella retorica. Il riguardo che si dovrebbe avere quando si parla di determinati argomenti impone un’attenzione talvolta più grande rispetto a quella di cui si è capaci. In un certo senso io ho scelto di scrivere col silenzio: il protagonista che racconta è avvolto da un’aura di solitudine che accompagna ogni accadimento e ogni descrizione della sfera emotiva, un’aura che lo protegge da ogni assalto del dolore. La drammaticità della storia è inoltre una caratterizzazione immanente, un elemento in un certo senso autonomo, nato da se stesso. Ho tentato di andare in un’altra direzione ma ad un certo punto il protagonista mi ha suggerito quale fosse il finale.  
 
 
- I tuoi racconti sono come tasselli nella tua testa già preordinati o ti capita durante la giornata di vivere qualcosa e da lì pensare ad un racconto?
 
 
Nella mia testa ci sono tasselli e c’è una vita. Schopenhauer sosteneva che nessuno può essere in grado di vedere le cose esattamente nella stessa prospettiva di un’altra persona. Ogni cosa, ogni sensazione che attribuiamo all’altro è soggetta ad un filtro congenito e deformante, un filtro che riguarda solo la sfera personale. Con ciò voglio dire che difficilmente sia possibile fare un buon romanzo o un buon racconto se ciò che si tenta di de-scrivere è lontano dalla proprio modo di pensare e di vedere le cose. La fantasia parte sempre da costrutti prestabiliti che non possono prescindere dalla realtà, e nello specifico dalla realtà personale. Anche chi scrive di draghi sputa fuoco segue un costrutto prestabilito: prima di lui c’è stato chi ha aggiunto ali e fuoco ad una specie di animali già esistente nella realtà. Lessi un solo libro in cui la credibilità dell’autrice divenne ancora più ampia nella figura di un protagonista che non poteva avere alcuna attinenza con la vita della stessa: “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar. La cosa che più mi sconvolse di quel romanzo fu la sovrumana prova dell’autrice, cancellò se stessa per diventare Adriano, per vedere le cose con gli occhi di Adriano. Ci riuscì pienamente, almeno in apparenza. Sto ancora cercando il trucco, perché sono certo, un trucco c’è.
Per quanto mi riguarda dunque i tasselli vengono uno dopo l’altro, non prima di aver vissuto un minuto dopo l’altro.
 
- Hai scritto dei libri? Sei presente in antologie?
 
Non ho pubblicato nulla ma ho scritto un romanzo anni fa che non ebbi né il coraggio, né la voglia di presentare a nessuno. Non ho mai contemplato la fantastica possibilità di guadagnare facendo lo scrittore di professione. Vivo con i piedi per terra, forse proprio per questo ogni tanto ho un estremo bisogno di fuggire scrivendo. Senza parlare poi di qual è lo stato in cui versa il panorama letterario attuale. Mi riferisco principalmente alle ormai classiche tipografie che si spacciano per case editrici chiedendoti soldi per essere pubblicato.
Vinsi tempo fa il primo premio di un concorso di poesia (e con questa frase dovrei aver stimolato a sufficienza il menefreghismo di chi legge).
 
- Quale è la tipologia letteraria che ti piace di più?
 
Trovo nei classici un’intelligenza di fondo che difficilmente si può riscontrare nelle produzioni moderne. Oggi si ha la sensazione che tutto sia già stato scoperto e che i grandi temi esistenziali non debbano essere più trattati se non esclusivamente all’interno delle aree preposte e competenti (filosofia e psicologia). Al di fuori di queste aree è rimasto solo l’effimero. Una certa visione moderna della compravendita ha reso commercializzabili perfino le parole, la parola è diventata merce per le masse. Ciò non toglie che si trovino ogni tanto, anche tra i moderni, perle inestimabili.
 
- A proposito, chi è Luciano Michilin?
 
Una persona tendenzialmente allegra. Anzi, un disperato che non dimentica mai che essere disperati non è più inutile di fingersi allegri.
Una volta gli scrittori erano maledetti. Oggi a quella parola, “maledetto”, non crede più nessuno. Come ogni merce è diventata obsoleta. Oggi siamo tutti maledetti, ma solo pochi, a causa del positivismo fasullo che si è costretti a far proprio per vendersi, hanno la possibilità di mostrarsi disperati. Ci vuole coraggio però, e lo si deve dire ridendo, qualora si fosse ancora legati all’aspetto sociale della propria esistenza.
Per il resto sono nato a Roma (come tanti altri), vivo a Milano (come tanti), e questo è tutto ciò che potrebbe interessare. Ma voglio annoiare ancora, pertanto, dato che non lo si è ancora capito, aggiungo che mi piace scrivere.      
 
- Se devi scrivere sei metodico o follemente disordinato?
 
Metodico in senso personale. Credo che ognuno di noi debba per forza seguire un metodo personale per poter scrivere un romanzo o un racconto sensato. Il disordine dovrebbe essere solo una condizione originaria, generante. Poi le idee dovrebbero disporsi in un ordine. Le volte in cui non sono riuscito a ordinare le idee, ho rinunciato a scrivere.
 
- Quando capisci che il tuo racconto è pronto per essere donato ai lettori?
 
Leggo i miei racconti tantissime volte prima di sottoporli al giudizio dei lettori. Lo trovo utile anche per capire se il concetto portante sia stato o meno sviluppato in modo tale da essere comprensibile.
Tutto però è perfettibile, e può capitare spesso che a distanza di settimane, dopo aver riletto un racconto già pubblicato, mi possa accorgere che alcune parti potevano essere scritte in modo diverso. Forse non basterebbe una vita per scrivere qualcosa che tocchi veramente la parte più profonda del lettore e credo che solo chi ci è riuscito, senza apportare troppe correzioni, possa definirsi un vero scrittore. In fondo si scrive anche per questo, riuscire a far entrare le proprie parole in modo silenzioso nel luogo più remoto che il lettore gli ha destinato.  
Aggiungo: la parola nacque a seguito di una necessità. Chi oggi scrive - che sia una lettera, un racconto, un romanzo - diviene indubbiamente custode di una necessità atavica. Riporta in superficie un bisogno ontologico che merita dedizione e impegno: leggere e rileggere ciò che si è scritto, correggere e ancora correggere, è l’unico modo per rendere divulgabile un risultato finale in cui la personale parola dovrebbe essere quanto più vicina al personale concetto.
  
 
- Dacci un consiglio su come strutturare un racconto breve e non uscire fuori tema nel caso di un concorso che richieda determinati standard.
 
Proverò a rispondere anche a questa difficile domanda.
Riallacciandomi ad una delle domande precedenti credo che sia difficile uscire fuori tema fintanto che si ha qualcosa di personale da dire. La difficoltà maggiore si presenta quando l’argomento su cui costruire una storia risulta essere lontano dalla nostra sfera emozionale. Far proprio l’argomento, renderlo nostro, potrebbe essere un suggerimento valido, ma bisogna essere capaci di una sensibilità e di un’empatia notevoli.
Non ho mai creduto nel metodo. Certo, può aiutare, ma se non si è istintivamente capaci di comprendere come dosare idee e parole in funzione di un argomento ben preciso, non c’è metodo che tenga.
 
 
- E il futuro?
 
Il futuro non esiste. Ancor meno del passato. Qui e ora sono le uniche cose che contano.
Termino citando Orazio: "Dum loquimur, fugerit invida aetas".
Grazie Luciano.

 

Grazie Luciano per avermi dedicato queste parole. Per me è una intervista bellissima, creata da una persona che dentro di se ha un poeta. Mi meraviglio che non sei mai stato assalito dalle interviste e provo orgoglio ad essere stata la prima a notare il talento racchiuso nelle tue parole. Il mio blog è sempre a tua disposizione, "come la casa del poeta"!

Saluti e "ad meliora".

Sarah

Scrittrice per ArteMuse Editore

D & M Gruppo editoriale

L'intervista

02.03.2013 15:41
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