Bonifacci, Lezione III
Lezioni di talento
Come scrivere quando non si scrive
Posto che potete sempre andare direttamente alla fonte, eccovi la lezione n. 3 di Bonifacci.
Uno dei primi problemi a cui ho pensato quando ho iniziato questo corso, è che io stesso, quando sento parlare di “istruzioni per scrivere un racconto” o di “tecniche narrative”, resto perplesso. Penso che tra il manuale della Scuola Radio Elettra e quello di narrativa dovrebbe esserci qualche differenza. Se non altro perché l’elettricità ha regole oggettive mentre “regola d’oro della narrativa è che non esistono regole, eccetto quelle che ogni scrittore pone a sé stesso” (David Lodge).
Per capire cosa sia in realtà la “tecnica narrativa” occorre fare un salto indietro nel tempo. Oggi infatti siamo ormai assuefatti a percepire la tecnica come qualcosa di esterno, un sapere oggettivo che precede la personalità di chi usa lo strumento. Come le istruzioni per il trapano, appunto.
Invece, parlando di scrittura, dobbiamo accedere ad un significato più antico di “tecnica”: la tecnica come ponte fra l’interno e l’esterno, un apprendistato che riguarda sia gli aspetti pratici che quelli spirituali della propria disciplina. Nella scrittura questi due aspetti non sono soltanto collegati. Sono la stessa cosa.
Per fare l’esempio più banale: cosa vuol dire che bisogna evitare aggettivi scontati (“sorriso amaro”) o vaghi (“sorriso meraviglioso”)? Questa è una lezione di tecnica? No, è una “lezione di sguardo”: ci dice che dobbiamo guardare meglio e più a fondo il sorriso che abbiamo davanti. Solo così troveremo un aggettivo che ne definisce la natura in modo più chiaro e preciso. Ma questa non è una “tecnica” come quella che serve a usare il trapano: questo è qualcosa che riguarda non solo la pagina ma la persona. Imparare a definire meglio un sorriso non ti servirà solo a scrivere, ma anche a divertiti alle feste o a capire gli intrighi in Consiglio di Amministrazione.
Mentre le regole d’uso del Black & Decker parlano di un trapano e basta, ogni regola narrativa seria parla anche di noi. Perfezionare il proprio stile o la propria capacità di tessere trame, significa perfezionare il proprio modo di vedere e di sentire. Come dice Forster (66) “Se lo scrittore vedrà sé stesso in modo nuovo vedrà analogamente anche i propri personaggi, e ne verrà fuori un nuovo sistema d’illuminarli”.
Del resto, perché mai stiamo a perdere tempo dedicandoci ad una attività come la scrittura, che non pare tra le più richieste o le più redditizie? Siamo masochisti? Non siamo capaci di fare nient’altro? Siamo disadattati sociali?
A parte pochi casi, no, non è per questo. In genere ci si avvicina alla scrittura mossi da un desiderio più o meno consapevole di capire meglio, di avere uno sguardo più limpido, di sentire in modo più ordinato e preciso. Le ragioni della “aspirazione a scrivere” si annidano in un desiderio di crescita spirituale che è in qualche misura naturale ma trova sempre meno sbocchi nelle nostre vite così come sono.
Perché parlo di tutto questo? Perché se la tecnica è un ponte tra l’interno (noi stessi) e l’esterno (la scrittura), non è detto che la soluzione sia sempre lavorare sulla scrittura: a volte serve anche, e forse più, lavorare su noi stessi.
Sarò matto ma sono convinto che gli errori nell’uso del punto di vista narrativo, la genericità di un personaggio, la trama esile o viceversa troppo densa, le ingenuità dello stile, possono essere definiti come problemi tecnici, ma spesso affondano le loro radici in qualche zona antecedente alla tecnica. Tante volte (anche se non sempre) nascono dal nostro personale rapporto con la scrittura, dai nodi non sciolti tra emozioni profonde e gesto creativo, dalla scarsa fiducia nelle nostre capacità (o in deliri di grandezza, che è la stessa cosa), dalla paura di portare la scrittura su terreni pericolosi e perciò fertili, o da tante altre questioni che con la tecnica non hanno niente a che fare.
Finché questi problemi non vengono risolti, o almeno non diventano visibili, parlare di questioni tecniche è come insegnare sofisticate diete a qualcuno che nel profondo desidera mangiare più di ogni altra cosa al mondo. Servirà solo ad aumentare la frustrazione.
Così ho deciso: ogni due lezioni di “tecnica pratica” ne farò una di questa roba qua, che non so come nominare e che -con ironia, sia chiaro – ho chiamato “Lezioni di talento” .
Il nome viene da una riflessione di Dorothea Brande che (nel 1934!) scriveva che chi tiene corsi di scrittura si sente obbligato a dire che “il genio non si insegna”, provocando crisi di sconforto nell’aspirante scrittore, perché lui, segretamente, si era iscritto proprio sperando di impararne almeno un pochino.
Oggi “genio” è stato sostituito dal più laico “talento”, ma la sostanza resta identica. Ogni discorso sulla tecnica narrativa inizia dicendo “il talento non si insegna”. La frase a livello logico è incontestabile ma a livello emotivo è una mazzata, perché il “talento” è la magia della scrittura, la differenza tra un’emozione e il nulla, il motivo per cui tutti amiamo leggere. Quello per cui vogliamo scrivere. Ma se il talento non si insegna, che diavolo stiamo a fare qua? A imparare come mettere insieme una trama e come scegliere aggettivi?
Ecco l’imbroglio. Il significato reale della frase “il talento non si insegna” è che allora non si insegna niente di rilevante.
E allora, come provocazione, ho scelto come titolo proprio l’impossibile ”Lezioni di Talento”. Al di là dell’ironia, sono lezioni che mirano ad affrontare un problema importante: il “come scrivere quando non si scrive”. Secondo logica, avrebbero dovuto essere un primo capitolo che precedeva il resto. Ma le riflessioni all’inizio sono una palla, quindi le facciamo adesso, dopo le prime due lezioni pratiche (Nota: sì lo so, la seconda lezione pratica non c’è ancora. Ma arriverà).
Il limbo del “Sarò in grado?”
Tra i problemi della scrittura che stanno “prima dello scrivere” uno dei più melmosi è l’insicurezza, il senso di colpa, la paura di “star perdendo tempo”. Il tutto riassunto nella domanda fatidica: io avrò talento? Sarò in grado di scrivere?
Diciamolo subito: questo limbo è una situazione comoda. Permette di stare con un piede dentro la scrittura e un piede fuori. E’ una condizione in apparenza tormentata ma che regala la calda e illusoria sicurezza delle scelte fatte a metà. Confortevoli e inutili.
Ci vuole un po’ di coraggio. E’ indispensabile abbandonare il limbo e gettarsi, da una parte o dall’altra. Il motivo non è etico, è pratico: scrivere bene una bella storia richiede ogni nostra energia interiore e non possiamo regalare al dubbio nessuna delle nostre forze, che sono scarse per definizione. Sulla scrittura si deve scommettere senza riserve. Magari per un tempo limitato, ma bisogna farlo.
Basti pensare alla fatica delle revisioni. Nel cinema riscrivere una sceneggiatura tra 7 o 10 volte rappresenta la normalità. Nella narrativa è uguale: la necessità di fare molteplici revisioni al testo è capitata a Tolstoj (sette) e a Moravia (nove) nel pieno della loro maturità artistica. Forse può capitare anche a noi durante la nostra prima storia, no?
La domanda pratica è: come si fa a riscrivere 9 volte una storia se ci si continua a chiedere “sarò in grado di scrivere?”. E’ chiaro che non si fa, dopo una o due riscritture si getta la spugna. Poi, se il bisogno è davvero forte, si riparte con un’ altra storia, con maggiori dubbi sulle proprie capacità e un accresciuto senso di colpa perché “forse sto perdendo tempo”. A forza di tentativi timorosi compiuti al sussurro di “sarò in grado?”, si finisce per perdere molto più tempo che con un tentativo determinato, una “scommessa senza riserve”.
Questo non significa che per scrivere dobbiamo tirarci fuori dalla vita. La “scommessa senza riserve” possiamo farla anche con poche ore a disposizione, in presenza di impegni, lavori e affetti da gestire. Non sono i limiti esterni che ci impediscono di abbandonare il limbo. Potrei farvi 500 esempi di scrittori che hanno prodotto centinaia di pagine mentre facevano un lavoro, pensavano alla famiglia o gestivano reti di relazioni complicatissime. Il problema non è quasi mai è l’agenda, sono i sensi di colpa: avrò le qualità? Sto perdendo tempo? E’ questo fardello che va buttato a mare.
Ci sono solo due soluzioni sensate per chi si trova nel limbo del “sarò in grado?”. Mettere da parte i dubbi e scrivere oppure, se i dubbi sono troppo forti, mettere da parte la scrittura e non pensarci più.
Il vero modo di buttare il tempo è stare nel limbo, perché tra l’altro questa domanda contagia ciò che si scrive. Dice Gardner: “E’ difficile essere contemporaneamente un buon scrittore e una persona che si sente colpevole; nella prosa che uno scrive si insinua una mancanza di rispetto nei propri confronti”. Insomma, i dubbi dello scrittore su se stesso tolgono alla scrittura l’autorevolezza, una delle sue doti più preziose.
Non c’è nulla di male nel rinunciare a scrivere: si risparmia fatica e tempo, si perdono ricompense incerte e raramente adeguate allo sforzo. Dunque, è una scelta saggia. Se invece abbiamo voglia di continuare, basta dubbi. Finché non abbiamo finito il lavoro, siamo scrittori che credono in se stessi. Abbandoniamo ogni tormento sulla nostra adeguatezza e gettiamoci, considerando ogni problema, ogni blocco, ogni errore, come un normale ostacolo da superare col lavoro, la ricerca, la riflessione.
Se si riesce a compiere questo scatto – scrivere da scrittori anziché da timorati aspiranti oppressi da sensi di colpa – si può assistere a un miglioramento notevole, a volte miracoloso della scrittura. Per alcuni aspiranti di talento bloccati dall’insicurezza, questo scatto mentale può sostituire ogni altro insegnamento e fornire la chiave per scoprire da soli le tecniche necessarie. Perché la vera dannazione, dentro al limbo, è che le energie deragliano dal loro corso. E anziché interrogarci sulla sorte dei nostri personaggi, finiamo per interrogarci sulla nostra sorte di scrittori. Con gravi conseguenze su entrambi i fronti.
Il contenuto o la forma?
Per molti aspiranti i corsi di scrittura sono inutili perché hanno un problema alla radice: scrivono di contenuti di cui a loro stessi importa poco.
Sì, lo so che nei salotti fa figo dire che il contenuto è irrilevante e solo la forma conta, o che “non conta ciò di cui si scrive, ma come lo si scrive”.
Sono balle colossali. O meglio: sono affermazioni che forse sono vere, e comunque vanno benissimo per critici, professori, lettori. Il problema è che per chi scrive questi pensieri sono mortali.
Chi scrive deve avere una autentica passione per il contenuto che ha scelto. Solo questo lo spingerà a trovare anche la forma migliore per esprimerlo.
Se non ti importa fino in fondo di quello che scrivi, la forma tende a sfasciarsi e gli errori tecnici proliferano. Il contenuto poco sentito tende a produrre una forma scadente.
Non è difficile da capire. Solo quando scrivi di contenuti che per te sono essenziali ti viene la volontà profonda di trovare la forma giusta, e magari di imparare anche le tecniche che non sai. Tu credi in quelle cose, e vuoi raccontarle al meglio.
Se non c’è questo movente profondo, e ci si concentra solo sul “come si scrive”, si cade nel formalismo, una ricerca di tecnica astratta e fredda. Tra l’altro inevitabilmente destinata a un pubblico settoriale, fatto di critici, scrittori e aspiranti tali.
E’ una cosa che si vede anche nella vita quotidiana, basti pensare ai rappresentanti che per vendere devono mostrarsi amichevoli senza provare amicizia: le loro dimostrazioni di simpatia sono verbose, utilizzano termini astratti, fanno ricorso a cliché e luoghi comuni e sono sempre troppo lunghe. Inoltre, sono prive di uno stile personale e sembrano tutte uguali.
Andiamo a guardare le parole sottolineate: sono alcuni tra i “difetti tecnici” più diffusi nei testi degli aspiranti scrittori. Ma quello dei rappresentanti non è un problema “tecnico”: è solo che stanno fingendo, vogliono solo vendere e di noi non gli importa una mazza! Però anche loro sanno fare “dichiarazioni di simpatia” perfette quando giocano coi loro figli o vanno a bere coi vecchi amici.
Per chi scrive è uguale. Non fingete che vi importi di quello che scrivete. Scrivete di qualcosa che vi importa davvero.
Del resto i contenuti sono importanti anche per chi legge. Quando un amico ci consiglia un libro un film non gli chiediamo “che stile ha?”, gli chiediamo “di cosa parla?”. Come bambini che chiedono la favola al nonno, vogliamo sapere il contenuto, non la forma.
Certo, nei salotti citeremo Buffon (non il calciatore, l’altro), col suo classico “lo stile è l’uomo”. Però quando scriviamo è bene ricordare che per noi deve venire prima il contenuto.
Abbiamo necessità di un contenuto che ci entusiasmi, ci ingolosisca, ci dia una frenesia strana come quando siamo innamorati. Allora sarà più facile trovare la tecnica per rappresentarlo. Potremmo anche scoprire che, senza saperlo e senza neanche fare un corso, forse la tecnica la conosciamo già.
Ma qual è il contenuto giusto?
Ovviamente una risposta generale non esiste, ciascuno ha il suo. Intanto possiamo dire però qual è il contenuto sbagliato.
Cosa non scrivere
Non si deve scrivere su qualcosa che crediamo di aver capito meglio, qualcosa che può piacere al pubblico, o che può affascinare i critici. Non bisogna scrivere per seguire le mode del momento, né per combatterle. Non bisogna correre dietro agli argomenti di attualità. Nemmeno esplorare nuovi linguaggi o trattare importanti temi sociali.
Questi sono i mezzi, non i fini. E inseguendo i mezzi è difficile arrivare da qualche parte. A differenza di quella per il Paradiso, la strada per la scrittura è sempre la più dritta.
Ripetiamo le parole di Schrader citate nella lezione 1 (credo): bisogna scrivere su “qualcosa che ci disturba”.
E’ così semplice. Bisogna mettere le dita sui nostri nervi scoperti e avere il coraggio di entrare nella nostra, personale, “area di pericolo”.
Gomorra è un bellissimo libro, ma non solo perché affronta un tema importante, perché denuncia la camorra, perché svela meccanismi, perché inventa una forma. Questi pregi sono decisivi, ovviamente, ma secondo me sono più effetti che cause. Secondo me, Gomorra è un bellissimo libro perché l’autore ha avuto il coraggio di prendere il toro per le corna: ha affrontato la cosa che lo disturbava di più al mondo e lo ha fatto in modo totale, immergendovisi fino al collo, senza reticenze e paure.
Arriviamo quindi al nocciolo della faccenda, la frasetta da appendere al muro: la capacità di affrontare ciò che ci disturba è uno dei tratti principali del talento.
La buona notizia è che, come tutto, si impara. Alla fine della lezione, vedremo anche come. Non sto scherzando.
Livelli di ingresso
Nella scelta del contenuto la soluzione più immediata è quella che Francis Scott Fitzgerald suggeriva a una studentessa che gli aveva mandato i suoi racconti: “E’ il tuo cuore che devi vendere, le tue reazioni più viscerali, non le cosucce che appena ti sfiorano (…). E questo è vero soprattutto quando si comincia a scrivere, quando ancora non si sono messi a punto gli stratagemmi per fissare l’interesse della gente sulla pagina, quando non si dispone di quella tecnica che ci vuol tempo per imparare. Quando, in poche parole, si hanno soltanto le proprie emozioni da vendere”.
Fitzgerald si spinge anche più in là: “Lo scrittore inesperto può verificare la sua capacità di trasmettere agli altri i propri sentimenti soltanto grazie a procedimenti radicali ed estremi, come strapparsi dal cuore una prima sventura amorosa e trasferirla sulla pagina scritta”.
Questo esplicito invito alla confessione va preso per quello che è: il consiglio a una giovane scrittrice che aveva dato prova di scarso talento. Per lei, “strapparsi dal cuore una prima sventura amorosa” era una ottima indicazione, una strada “per imparare il talento”. Ma non è l’unica né la migliore. Lo stesso Fitzgerald, in un altro brano, vede i limiti di questo atteggiamento. Infatti parla di quegli scrittori che fanno un buon libro solo perché “avevano la pancia vuota e i nervi a pezzi”, ma poi, “con la pancia piena e i nervi rilassati”, non riescono più a produrre nulla di interessante.
La tecnica strettamente autobiografica, lo “strapparsi dal cuore” le proprie sventure (amorose, professionali, familiari, ecc.) per trasferirle sulla carta, è il primo livello della buona narrativa, nonché la sua fase per così dire giovanile. E’ un ottimo modo per fare allenamento o per scrivere la prima storia, proprio al massimo la seconda. Poi basta, dopo un po’ è una strada da cui non si cava più nulla, bisogna abbandonarla. Scrivere, alla lunga, significa imparare ad abitare altre vite, non raccontare all’infinito la propria.
Il trapianto emozionale
A un livello più elevato troviamo un metodo che potremmo definire “trapianto emozionale”. Dostoevskij non ha mai ammazzato nessuno, tuttavia Delitto e Castigo è uno dei più straordinari viaggi compiuti dentro la mente di un assassino. Come si sa, è la storia di un giovane che ammazza una vecchia usuraia in totale leggerezza, per rubarle i soldi, poi entra in un lento e agghiacciante processo di “presa di coscienza della colpa” che occupa tutto il romanzo e lo conduce infine al bisogno purificante della confessione e del castigo.
Ma come fa il non-assassino Dostoevskij a raccontarci ciò che accade dentro la mente e i nervi di un giovane assassino? Come fa a raccontarcelo addirittura meglio di quanto facciano oggi i giovani assassini in carne e ossa quando -dopo arresto, condanna, prigione e pentimento- raccontano i loro tormenti ai settimanali o in tivù? Come può, lui che non ha ucciso nessuno, conoscere quelle emozioni meglio di chi le ha provate e di chi le proverà un secolo dopo?
Leggendo le lettere di Dostoevskij si trovano tracce di un suo personale, enorme senso di colpa che riguarda il gioco d’azzardo e i problemi che questo vizio provocava alla sua famiglia. Queste pagine hanno più di qualcosa in comune col senso di colpa provato dal giovane assassino del romanzo, ci sono aggettivi in comune, giri di frase simili. Perchè Dostoevskij (almeno secondo me, è la mia idea) ha attinto alla sua emozione personale di colpa, per calarla in un’altra storia e in un altro personaggio.
Questa capacità è talento a un livello più alto. Anziché “strapparsi dal cuore” le proprie emozioni per trasferirle sulla pagina, lo scrittore sa usarle come strumenti per indagare la condizione umana. Usa il proprio senso di colpa, per inventare altri sensi di colpa.
In fondo, dice Simenon, “abbiamo in noi, tutti quanti, tutti gli istinti dell’umanità. Di fronte a qualsiasi evento accada ai nostri personaggi, basta guardarsi dentro e trovare un nocciolo di emozione che abbia a che fare con quella situazione”.
Un nocciolo di emozione dentro di noi…Questa è spesso la base che “odora di verità” e che ci permette di costruire in modo credibile le emozioni di un personaggio diverso da noi.
Basta trovare dentro di sé un’emozione, che ci interessa perché è importante, o che ci incuriosisce perché nella nostra vita non si è sviluppata ed è rimasta inespressa in un angolino. Senza intaccarne la natura viva e sanguinante, bisogna trasferirla in un personaggio e in una storia che a naso capiamo potranno farla crescere: poi la coltiviamo, la annaffiamo, e vediamo dove va.
Avremo costruito una storia, e forse, se ci interessa, capito anche una cosetta in più su noi stessi.
A mio avviso, il “trapianto emozionale” è la chiave con cui raccontare altre vite attraverso noi stessi. Ciò che caratterizza il mestiere di raccontare storie.
Nel mio piccolo, che è molto piccolo, è così che io, maschio bianco di 46 anni con una tranquilla vita da papà di provincia, ho potuto scrivere film che parlano di schizofrenici, giovani madri, immigrati egiziani, gay, utopisti anni settanta, ragazze strafottenti, maniaci ossessivi, poliziotti frustrati, politici cinici, baroni universitari, e via dicendo.
E alla fine quasi sempre è pure arrivato qualcuno che si identificava e diceva “Ma quello sono io? Come hai fatto?”. E’ la magia della scrittura, oltre che la sua vera libidine. Basta non avere paura del proprio mondo emozionale e tuffarcisi ogni tanto: dentro ciascuno di noi c’è tutto.
Esercizi di trapianto
Vi propongo un esercizio di trapianto emozionale. Pensate a un momento in cui avete fatto qualcosa di particolare, un gesto di cui siete fieri, o di cui vi vergognate. Qualcosa che esce comunque dalla routine. Un momento raro che ricordate vividamente. Ritornate a quell’emozione, provate a descriverla su carta, in terza persona, come parlando di qualcun altro. Scrivete 10, 15, 20 righe. Non di più. Non soffermatevi tanto su gesti e parole, descrivete l’emozione.
Ora quell’emozione è davanti a voi, su carta, scritta in terza persona. Se vi provoca fastidio pensare che è vostra, dimenticatelo. E’ un’emozione scritta su carta. E’ scrittura e basta. Provate ad inventare un personaggio e una storia partendo da quella emozione (intendo una storia in forma di soggetto, solite 3-5 pagine).
Chiedetevi: Questa emozione in qualche personaggio potrebbe essere il tratto dominante? Quale storia potrebbe stimolarla e farla uscire in modo sempre più forte? Quali ostacoli la trama deve porre al personaggio perchè questa emozione si sviluppi?
Provate a vedere che succede. Fatelo quante volte volete.
PS. Al contrario di tutti gli altri esercizi che vi propongo, questo non so se funziona perché non l’ho testato personalmente. Infatti non ho mai fatto esercizi di “trapianto emozionale”, perchè è una cosa che mi veniva spontanea. Però non mi pareva un buon motivo per non farlo fare nemmeno a voi.
Tutto quel che avreste voluto sapere sul talento e non hanno mai osato dirvi
Ricevo, come chiunque scriva per mestiere, diversi scritti da persone che mi chiedono un’opinione. Da un po’ non leggo più per mancanza di tempo, ma per vari anni l’ho fatto, dando anche risposte molto dettagliate. Ma quasi sempre mi sono accorto con stupore di una cosa: chi manda testi in lettura, a parte rari casi, è già consapevole dei difetti del proprio scritto.
Allora perché perde tempo a cercare un’opinione? Perché non usa quel tempo per lavorare sui difetti del testo ed eliminarli?
Il fatto è che la vera richiesta non è quasi mai un parere sullo scritto. L’aspirante scrittore vuole sapere dal professionista se ha talento sufficiente oppure no. Vuole un verdetto. Una sorta di analisi del sangue.
E’ un atteggiamento che capisco perfettamente (da giovane l’ho avuto per troppi anni), ma è sbagliato. Come dicevamo prima, domande tipo “avrò talento?” provocano dubbi inutili.
Il fatto è che talento è una parola bella ma imprecisa. La parola precisa (che giustamente non si usa perché è orribile) sarebbe talentuosità. Che è come la puntualità, l’affidabilità, la responsabilità e tutte le parole che finiscono in tà-tà-tà. Descrivono capacità. Cose che, se uno vuole, le impara.
Fate una prova: prendete 10 autori che ritenete geniali e cercate i loro testi giovanili. In 9 casi su 10 scoprirete che la genialità che vi incanta, da giovani non ce l’avevano. Il talento è qualcosa che hanno perfezionato. Che hanno imparato col tempo.
Poi è vero, in 1 caso su 10 scoprirete che a 20 anni qualcuno aveva già un talento maturo, beato lui, o lei. Ma poi in questi casi, in genere da adulti sono peggiorati. Per loro il talento è qualcosa che si perde. Che si disimpara.
Ecco qua la definizione del talento: qualcosa che si impara e si disimpara nel tempo. Non è una magia o una benedizione ma un percorso: un duro percorso, fatto di fatica, impegno interiore e tante ore di applicazione, ma un percorso.
E’ ovvio che qualcuno è più portato a intraprenderlo di altri. Vale per tutte le parole in tà-tà-tà: chi di natura tende a essere irresponsabile, per imparare la responsabilità dovrà farsi un gran mazzo.
Per il talento è uguale. E siccome il talento (al contrario della responsabilità) non è indispensabile per vivere, si sconsiglia di intraprendere il percorso a chi non sia già un po’ portato.
Se farlo o no, è affar vostro. La decisione di intraprendere il percorso del talento è personale e nessuno può prenderla per voi. Ma è una decisione che va presa, magari dandosi un tempo di verifica (“ci provo per un tempo X poi vedo”). Però dovete decidere se volete fare questo percorso o no.
Se decidete “no”, amen. Se decidete sì, non chiedetevi mai più “avrò talento?”. Se avete deciso sì, la domanda che vi dovete fare d’ora in poi è un’altra: “come aumentare il mio talento”. Proviamo a vedere come.
Anatomia del talento
Proviamo a definire il talento scomponendolo in alcune caratteristiche di base (l’elenco è incompleto, non siamo all’università):
-capacità di avere belle idee, e di averne molte
-senso estetico e\o senso del ritmo
-capacità di sintonizzarsi con ‘quel che gira nell’aria’ (cioè quel che già c’è ma ancora non si sa che c’è)
- empatia, cioè capacità di sentire cosa provano gli altri (ha un duplice uso: ci serve per sentire quel che prova il personaggio ma anche quel che prova il pubblico e a prevedere le sue emozioni)
-avere una visione del mondo personale, vera e interessante
-avere sensibilità per il genere specifico che si è scelto, per il linguaggio che si sta usando, eccetera
-avere uno stile personale
-avere la capacità di lavorare 8 ore al giorno, e concentrati (“Il genio è sedersi a tavolino ogni giorno alla stessa ora”, Flaubert)
-avere un gusto profondo per la riscrittura e la revisione, perché “scrivere è riscrivere”
-avere una grande severità nel giudicare se stessi, e al tempo stesso la capacità di non dare troppo peso ai giudizi del mondo, continuando sulla propria strada
-altre qualità a piacere che ciascuno può decidere (perché ognuno si crea anche il proprio specifico talento)
Bene, l’eterna domanda “avrò talento?”, già adesso ha meno senso: è chiaro che ciascuna di queste singole caratteristiche si impara. Basta scindere la parola magica in una serie di capacità specifiche, per rendersi conto che ciascuna può essere migliorata.
Per fare un esempio, vi racconto quali sono stati i miei personali “esercizi di talento”. Non sono i migliori né gli unici. Ve li cito solo perchè sono veri, concreti e sperimentati in prima persona. Servono come base per inventare i vostri personali “esercizi di talento”.
Riprendiamo quindi le caratteristiche che sopra abbiamo individuato facendo la “anatomia del talento”: come sfida, partiamo da quelle che sembrano più “innate” e poco adatte ad essere sviluppate con l’esercizio.
Capacità di avere idee belle, e di averne molte.
Chi lavora con me spesso dice che sono molto “creativo”, cioè che ho un numero elevato di idee. Sembra il classico dono di natura, e magari in parte lo è, non lo so: ma di sicuro è una cosa che ho allenato moltissimo. Ho iniziato intorno ai 22-23 anni, dopo aver letto una sul giornale (attenzione, cito a memoria dopo 20 anni, quindi non sono certissimo che i nomi siano quelli giusti) che Tonino Guerra e Andrè Breton si trovavano ogni mattina in un bar di Parigi e facevano un gioco: uno diceva una parola, l’altro doveva costruirci sopra una piccola storia in 2-3 minuti. Lo facevano per un’oretta poi andavano alle rispettive occupazioni.
Mi trovavo in una di quelle fasi giovanili ben riassunte dal termine “cazzeggio”, così ho fatto per alcuni mesi questo gioco, anche se da solo perché non avevo amici così pazzi. Trovavo una parola a caso (da un giornale, dal dizionario, ecc) e ci costruivo mezza pagina di racconto al volo. L’ho fatto per alcuni mesi, al termine dei quali la mia capacità di produrre idee era letteralmente triplicata. In seguito ho continuato a fare l’esercizio in modi più sofisticati: ad esempio inventavo articoli per un mensile di notizie false, che poi ho buttato via quando avevo ormai i numeri per un anno intero. Anche oggi, in certi giorni di stanca, apro il giornale, leggo una breve di cronaca da 5 righe, e ci scrivo un soggetto. Così, per tenermi in forma. Poi lo butto via.
La capacità di produrre idee l’ho coltivata anche con le scelte di lavoro. Quando un lavoro raggiungeva la fase di routine e non serviva più creatività, ne cercavo un altro: in vari casi sono andato a guadagnare meno o a fare cose meno importanti, però volevo essere costretto a produrre nuove idee.
Morale: io non so se sono davvero “creativo” (magari lo dicono solo per lusingarmi per ottenere da me prestazioni sessuali, chissà…) però se lo sono è una capacità che ho in buona parte imparato. Se era un dono di natura, l’ho allenato moltissimo.
Se volete avere più idee, fate per 2 o 3 mesi questo esercizio, e vedrete…
Senso estetico e\o senso del ritmo
Si tratta di una dote essenziale perchè, come diceva Andy Warhol, “non so cos’è l’arte, ma so che un attimo prima e un attimo dopo è merda”.
Lasciando stare l’Arte, è certo che la capacità di chiudere al punto giusto una frase, una scena o una storia è essenziale. Anche questa è una dote che si può affinare con la pratica, ad esempio passando il proprio tempo con i maestri della propria disciplina anziché con le schifezze. Se passate ore a guardare le soap è difficile che poi scriviate film alla Hitchock o romanzi alla Milan Kundera.
Quando desideravo scrivere sceneggiature, mi sono inventato un esercizio: prendevo i film che mi emozionavano di più e, andando avanti con l’avanzamento veloce, riscrivevo la sceneggiatura. Non la cercavo su Internet, non la leggevo su un libro: la riscrivevo riguardando il film a pezzettini. E’ un esercizio faticoso (per un film puoi impiegare due o tre giorni) ma è potentissimo, perché fai a ritroso il percorso degli autori. In pratica devi immaginare come avevano pensato sulla pagina quell’effetto così bello che poi hai visto sullo schermo. Entri nella testa dei creatori e fai il loro percorso al contrario.
Metà delle cose che ho imparato sul mestiere di sceneggiatore, le ho imparate così. Basta un videoregistratore e una risma di carta. E’ l’antica (e sottovalutata) pedagogia del “ricopiare”. Questo per me è stato un grande esercizio di talento.
Lo si può fare ovviamente anche coi romanzi. Prendete un romanzo che vi è piaciuto, e scomponetelo per capire la struttura “architettonica” che lo sorregge. Provate a scrivere un “nuovo capitolo” con lo stesso identico stile dell’autore. Eccetera eccetera.
Capacità di anticipare le cose, cioè sintonizzarsi con ‘quel che gira nell’aria’ (cioè quel che già c’è ma ancora non si sa).
Anche questo parrebbe un dono, ma non lo è affatto. Quanto siete curiosi degli umani? Quanto vi interrogate sul futuro? Quanti rapporti del Mit (o del Censis) vi siete letti nell’ultimo anno? Quando conoscete una persona quante domande gli fate per capire cosa pensa, come se la passa, dove va il suo settore o la sua azienda o la sua vita personale? Non serve farla tanto lunga, il concetto è chiaro: per sintonizzarsi con “quel che gira nell’aria” bisogna essere curiosi sul mondo e il suo futuro. Tra l’altro questa caratteristica, utile in tutto, è ormai indispensabile per il cinema. Oggi per fare un film in Italia possono servire 4 o 5 anni (a me è capitato anche di più). Se tu parli del presente, quando il film esce parla del passato. Devi per forza individuare temi che valgano nel presente ma restino validi qualche anno. E’ una sorta di necessaria capacità professionale.
Empatia, cioè capacità di sentire l’altro. Sentire quel che provano il personaggio, il lettore o lo spettatore.
Questa è una delle qualità più importanti per scrivere. Il nostro compito non è giudicare i personaggi ma sentirli, viverli da dentro, farli muovere con la loro propria energia. Questa capacità essenziale io l’ho allenata in molti modi. Ad esempio, sempre negli anni di cazzeggio giovanile, mi scrivevo una paginetta su ogni persona che conoscevo, anche di sfuggita. Cercavo di immaginare chi era, cosa provava, di cosa aveva paura, cosa sognava. Spesso non sapevo nulla, dovevo inventare, dedurre da una parola sentita, da un gesto, da uno sguardo abbassato su un certo argomento. Questo è allenare l’empatia. Nella vita quotidiana ci sono mille modi per farlo. Tra l’altro fa pure bene ai rapporti.
Conclusioni.
1. E’ inutile continuare all’infinito, il ragionamento s’è capito. Se avete deciso di scrivere, la domanda da porsi non è “avrò talento?”, ma “come migliorare il mio talento?”. Ovviamente quelli sopra non sono gli “esercizi giusti”, sono quelli che ho fatto io, perché servivano a me. Ognuno può (deve) inventare i propri “esercizi di talento”.
2. E’ chiaro che al mondo nessuno (me compreso) s’è mai detto “oggi faccio un esercizio di talento”. Semplicemente si tratta di imparare a trascorrere il proprio tempo coltivando passioni e abitudini che tendano a sviluppare la capacità di scrivere e non a deprimerla. Se uno passa le sue serate col gossip, i reality e la Champion’s, poi non serve che si danni l’anima a spedire i suoi manoscritti per sapere se ha talento. Glielo possiamo dire fin d’ora: non ce l’ha.
3. In sintesi. Il talento non è tanto una questione di lotteria (mi hanno estratto o no?) ma di condotta: si tratta di spendere bene il proprio tempo per tanto tempo. Fatelo, e il talento crescerà. Passate il tempo a chiedervi “ho talento?” e restate fermi dove siete.
4. Va infine ricordato che il talento nella scrittura non è indispensabile per vivere, non serve per avere successo, in genere non rende ricchi e non procura incrementi apprezzabili alle proprie chance sentimentali o erotiche. Quindi si consiglia il percorso solo a chi è già predisposto, sennò davvero non ne vale la pena. Però se lo iniziate, non fatevi più domande inutili. Siete scrittori? Bene, allora inventatevi un Dio che vede nella vostra testa e dice “se ti becco ancora a chiederti ‘avrò talento?’, ti fulmino all’istante”. E credeteci!
Incoscienza gioiosa
Un piccola parentesi. Garcia Marquez aveva una famiglia, due figli e un impiego come giornalista quando a poco più di trent’anni anni si licenziò e si chiuse in una stanza a scrivere, mentre sua moglie, con una creatività non inferiore alla sua, riusciva a convincere i negozianti a farle credito. La cosa andò avanti per 18 mesi, alla fine dei quali uscì dalla stanza con Cent’anni di solitudine. Nel giro di poco tempo il libro “si vendeva per le strade come hot-dog”, ma questo fu un accidente. Per quanto ne sapeva Garcia Marquez, il libro poteva andare come i precedenti (buone critiche e poca grana) lasciando la famiglia nella miseria e, vista la mole di debiti, quasi ai margini della legalità.
Garcia Marquez definisce questa e altre scelte della propria vita come “incoscienti”, giustificandole con un “irragionevole ottimismo che ho sempre considerato la mia migliore qualità”. Ecco, la parentesi è questa. Dopo aver studiato per anni grosse antologie in cui la vita degli scrittori è stata raccontata come interminabile riflessione sui mali del vivere, ricordiamoci che il più celebrato scrittore contemporaneo vede come sua migliore qualità un “irragionevole ottimismo”.
Non è un caso isolato. Molti scrittori che nei ritratti scolastici appaiono come tetri individui che grondano lacrime sulla miseria dell’esistere, hanno invece una forma di gioia tutta particolare e un tantinello incosciente.
Nel suo bel libro su Tolstoj, Pietro Citati racconta come lo scrittore russo abbia provato anche più di un “irragionevole ottimismo”. Tra le testimonianze, c’è questa lettera alla cugina: “E’ arrivata la primavera! Nella natura, nell’aria, in tutto c’è speranza, avvenire: un avvenire meraviglioso (….) a volte mi sorprendo nella piena illusione di essere una pianta per crescere semplicemente, tranquillamente e gioiosamente nel mondo di Dio. (….) Sotto i nostri occhi si compiono i miracoli. Ogni giorno, un nuovo miracolo”. Ci sono molte testimonianze di un Tolstoj che prova come un senso di mistica fusione con gli uomini e le cose sino a sentire “una bellezza troppo grande”. (22) Non a caso Pietro Citati conclude che Tolstoj “fu felice come pochi esseri umani” (92).
Persino un autore considerato ombroso e poco avvicinabile come Nabokov considera quasi un ferro del suo mestiere di scrittore “la fede irrazionale nella bontà dell’uomo”. Poi precisa che questa convinzione non si basa sui “fatti” né tantomeno sulle “traballanti filosofie idealistiche”. E’ soltanto una verità personale, una “verità solida e iridiscente” che oppone al mondo “dei direttori di giornali e di altri brillanti pessimisti”. E che oppone soprattutto al mondo comune che è “quadrato mentre tutti i valori e le visioni più essenziali sono meravigliosamente rotondi, rotondi come l’universo o come gli occhi di un bambino, la prima volta che vede uno spettacolo al circo”.
Di esempi ne potrei fare moltissimi. Pur essendo ovviamente capaci di guardare con occhio fermo ai drammi della condizione umana, gli scrittori migliori sembrano spesso capaci di una strana forma di felicità pagana. Una capacità di fondersi nell’esistenza che, probabilmente, non è estranea alla capacità “professionale” di abitare altre vite.
Insomma, pochi scrittori somigliano alla cupezza jettatoria che emerge dalle antologie o da certa critica letteraria. Al contrario, se c’è uno stato d’animo che forse è più facile trovare negli scrittori che in altre categorie, è una gioia irrazionale, un’esperienza quasi mistica di partecipazione all’esistenza, una fusione con le cose che permette di percepirne la bellezza con una forza che annichilisce.
Volevo ricordare questa cosa perché viviamo in un paese che a scuola racconta la letteratura, il teatro e il cinema d’autore come una lista di trattati sulle disgrazie e sulla sfiga dell’essere vivi. Quindi volevo solo dire che se un mattino vi capitasse di svegliarvi felici, non c’è da preoccuparsi! La capacità di gioire è perfettamente compatibile con la scrittura. Anzi, al contrario, secondo me è un ingrediente – e pure importante – del misterioso “talento”. Fine parentesi.
Genio e regolatezza
Per essere scrittori, occorre coltivare un temperamento da scrittori. Questa è una frase piuttosto banale. Anche per essere rappresentanti occorre coltivare un temperamento da rappresentanti. Il problema, nella scrittura, è la difficoltà di vedere da vicino il modello perché di rappresentanti ne abbiamo visti in abbondanza, ma quanti scrittori abbiamo conosciuto nella nostra vita?
Come diceva Indro Montanelli, “questa società non elimina i talenti, li disperde”. Non esistono più circoli, cenacoli, laboratori, luoghi in cui le persone che scrivono e quelle che vogliono scrivere possano guardarsi in faccia, trovare analogie tra loro, capire a che razza appartengono.
Così i modelli nascono dalle fantasie e dai racconti popolari, in cui lo scrittore ha una vita sregolata e maledetta, è geniale e vanitoso, incapace di ordine persino sulla sua scrivania, con una vita sentimentale promiscua, dominato da impulsi inconsci e oscure ispirazioni.
Da dove nascano queste dicerie lo sa -se lo sa- soltanto Iddio. Perché, dietro l’inevitabile varietà dei temperamenti, se esistono alcune caratteristiche più frequenti nella tribù degli scrittori, queste sono proprio l’opposto.
Gli scrittori sono perlopiù persone abitudinarie, con una vita all’apparenza tranquilla e persino noiosa, concentrati sul proprio lavoro e poco distratti dalle vicende del mondo. Non manca qualche scrittore davvero eccentrico (né qualche generoso che vuole donare al pubblico l’immagine sregolata che si attende), ma se andiamo a guardare la maggioranza, troviamo per lo più una schiera di persone in apparenza assai placide. Moravia poteva descrivere i tempi della sua giornata con la precisione di un impiegato che timbra un cartellino. Garcia Marquez ha orari di lavoro rigidissimi a cui aggiunge fissazioni da vecchia zia (non lavora se non ha un mazzo di rose gialle sulla scrivania e, quando scriveva a macchina, ad ogni errore di battitura buttava via tutto il foglio). Quella di Italo Calvino era, per dirla con le parole del suo amico Eugenio Scalfari, “una vita interamente dedicata al lavoro”. E per un Hemingway cacciatore di donne e di elefanti, abbiamo Tolstoj e Manzoni, intenti a scrivere nelle loro campagne, protetti da una tranquilla vita familiare.
Persino un artista considerato maledetto come Baudelaire scriveva che la fedeltà è uno dei segni del genio (lettera a Madame Sabatier). E Flaubert ci ha regalato una frase che rappresenta quasi una poetica della vita senza trambusti: “Perché una cosa sia interessante, basta guardarla a lungo”.
Certo, non si vuole affermare che chi scrive debba essere una vecchia zia che non si muove mai di casa. Chi scrive può vivere come meglio crede. Il punto è che non bisogna illudersi che per scrivere bene basti una vita spericolata, né che la scrittura abbia come optional di serie una vita più interessante delle altre.
La vita interessante serve per scrivere l’autobiografia, non per inventare storie. Stevenson dice che “l’artista scrive con più efficacia e con più entusiasmo delle cose che ha solo desiderato fare, non di quelle che ha fatto. Il desiderio è un meraviglioso telescopio” (48)
Se vogliamo una vita avventurosa, non abbiamo che viverla, il mondo è lì che aspetta. Se invece vogliamo scrivere sarà bene ignorare le credenze popolari e non farci distrarre dalle presunte esigenze eccentriche del nostro ruolo. Per riuscire a creare una bella storia è statisticamente più probabile che ci occorra imparare a concentrare le energie, non a disperderle.
Come scrive Flannery O’Connor “se non riuscite a cavar qualcosa da un’esperienza ridotta, probabilmente non vi riuscirà da una più vasta”. E aggiunge: “Il dovere dello scrittore è contemplare l’esperienza, non dissolversi in essa”. (54)
Ma su questo tema, la definizione più folgorante è quella di Georges Roditi, che ci ha lasciato una frase che mi piace moltissimo: “Per creare una grande opera ci vuole un avventuriero che resti a casa”.
Cattivi moventi
Uno dei grandi ostacoli alla buona scrittura è già scritto nel movente per cui si comincia a scrivere: la firma.
E’ difficile trovare qualcuno che cominci a scrivere spinto dal desiderio di raccontare il mondo. Quasi sempre si comincia per raccontare se stessi. Una minoranza, già sofisticata, inizia per mostrare l’acutezza del proprio sguardo sul mondo. In ogni caso, il movente iniziale è mettersi in mostra.
Dobbiamo farcene una ragione: tra i motivi per cui ci siamo avvicinati alla scrittura c’è spesso lo stesso bisogno di chi veste fosforescente in discoteca o compra automobili di tre metri più lunghe del necessario. E’ il bisogno antico di gonfiare il petto e gridare a tutta la giungla “sono qua anch’io”. Come fa, in modi più diretti e forse meno stressati, nostro cugino orango, con cui condividiamo il 99,8 per cento di Dna (dato sempre troppo trascurato).
In seguito però dovrebbe avvenire una svolta analoga a quella di chi negli anni Settanta si avvicinava alla politica perché c’era l’amore libero, poi ha iniziato a crederci davvero e a lavorare con tossicodipendenti, barboni ed ex carcerati in qualche cittadina di provincia.
Anche chi ha avvicinato la scrittura per pura vanità esibizionistica può (deve?) evolvere il prima possibile per arrivare al punto in cui si scrive per il puro gusto di raccontare, consapevole dei limiti e dei doveri che questo comporta. Per aiutarsi in questa svolta, si può rileggere ogni tanto il giuramento del narratore contento.
Il giuramento del narratore contento
(di B. C. Craven)
Sono narratore. Non sono altro che un postino incaricato di portare la realtà al lettore, dopo averla riscritta per renderla più interessante, e più comprensibile.
Penserò al mondo che vuole rappresentarsi tramite me, e penserò al lettore che deve godere della rappresentazione. Non penserò al mio successo, al mio nome e al destino della mia opera, accidenti poco più che casuali.
Accetterò l’insuccesso o la fortuna senza permettere che questi pensieri occupino la mia mente e mi distraggano dal lavoro che ho scelto.
Farò quanto è nelle mie possibilità per conoscere più a fondo la realtà, e per imparare ogni giorno a descriverla un po’ meglio.
Non mescolerò vita e scrittura, perché so che il mio lavoro scusa i miei comportamenti quanto il lavoro di un manovale, di un manager o di un macellaio.
Non seguirò né combatterò le mode della mia epoca, perché il destino delle mode è di essere ignorate.
Non proverò invidia né disprezzo per i miei colleghi, e dividerò con loro i segreti del mestiere di cui vengo a conoscenza.
Non cercherò di mettere in evidenza la mia abilità perché, poca o tanta che sia, deve essere usata per raccontare il resto del mondo, non per mostrare se stessa.
Tratterò col massimo rispetto ogni creatura della mia fantasia e tenterò con ogni mezzo di capirla più a fondo possibile, come fosse un essere reale che per vivere ha bisogno della mia comprensione.
Non riterrò “mio” un personaggio, una frase, una immagine, un’idea solo perché li ha inventati la testa che poggia sulle mie spalle. Il copyright e la parola “io” sono concetti assai utili alla vita pratica, ma imprecisi nel profondo. La fantasia è un serbatoio comune dell’umanità che appartiene a tutti. Desidero imparare ad accedervi nel modo più ricco e più efficace, ma la mia fantasia non è mia.
Comunque vada, sarò grato al destino per avermi regalato un mestiere, o un hobby, che ha il potere di riempire l’esistenza.
Lo stile sei tu
In futuro nel corso parleremo di stile. Stile nel cinema. Stile nella narrativa. Stile nei dialoghi. Stile nei vari generi. Stile in eccetera eccetera. Ma il nocciolo della faccenda è che le più importanti lezioni di stile si possono riassumere in poche pagine e molti aspiranti scrittori le sanno già. Non è difficile trovarle, e chi è interessato in genere lo ha fatto da tempo.
Nel fare “lezioni di stile” ci si imbarca in micro-consigli tecnici, in faticose classificazioni di infinite possibilità, per poi dire alla fine l’unica cosa che conta, cioè due frasi verissime e piuttosto conclusive.
La prima è: “Ogni stile va bene purchè sia necessario”, cioè intimamente legato alla materia e ai personaggi.
La seconda è: “Il tuo stile sei tu”. Il che significa alcune cose precise, e molto pratiche.
Se quando scrivi sei insicuro, si sente.
Se vuoi dimostrare la tua bravura, si sente.
Se non sai dove andare a parare, si sente.
Se hai paura, si sente.
Se hai dubbi sulla tua vocazione, si sente.
Se vuoi la fama si sente.
Se scrivi per scansare qualche problema personale, si sente.
Se non ne hai più voglia, si sente.
E se, alla fine, cerchi di mascherare quello che senti, si sente.
La scrittura è una particolare “seduta di psicoterapia” che non dice granchè sulla personalità profonda dell’autore (anzi spesso la maschera) ma racconta perfettamente quel che l’autore prova mentre scrive. Quello entra nello stile. In una certa misura, quel che proviamo scrivendo è il nostro stile.
Troppo spesso i problemi di stile sono solo la spia di un nostro rapporto non risolto con la scrittura. Se è così, è giunta l’ora di provare a risolverlo. C’è un esercizio che può aiutarci. In questa e in tante altre cose.
Il miglior esercizio di scrittura che conosco
Conosco un esercizio, che ho praticato e pratico spesso, perchè ha una capacità miracolosa di avvicinarci al nostro mondo emozionale. L’ho trovato in un libro del 1934 dell’americana Dorhotea Brande (pioniera dei corsi di scrittura in America e mai tradotta in Italia, che io sappia), poi ripreso nel 1974 dall’australiana Carmel Bird (pure lei inedita nel nostro paese, che io sappia). Faccio queste citazioni esotiche solo perché ho verificato che, se descrivo l’esercizio puro e semplice, molti pensano “che stronzata” e non lo fanno.
Questo esercizio può sembrare in effetti una piccola cosa, invece ha una potenza atomica.
Il suo unico problema è che è troppo facile e spesso non riesco a farne capire l’importanza. Chiamiamolo quindi Dream Writing, che è più figo.
Il Dream Writing funziona così. Per un mese ci si prende l’impegno di dedicare ogni giorno un quarto d’ora a scrivere. Non è molto no? Quel che conta è il quando scrivere e il cosa.
Il quando è: appena svegli. Prima di bere il caffè, fumare la sigaretta, cambiare il pannolino, fare footing, vendere azioni. Prima di tutto. Appena ci si sveglia si prende un block notes e si scrive per 15 minuti. L’ideale sarebbe tenere il block notes sul comodino, e prenderlo appena si aprono gli occhi.
Cosa si scrive? I sogni fatti alla notte. Senza interpretarli, senza chiedersi cosa significhino. Li scrivete e basta.
Può essere che all’inizio i sogni non vi vengano in mente ma non c’è problema: in questo caso scrivete un ricordo di infanzia (più indietro è, meglio è).
Tutto qua… Facile no? Appena svegli prendete il notes e scrivete un sogno della notte o, in alternativa, un ricordo antico.
Questo esercizio così banale ha un potere quasi magico. E’ prezioso per trovare il proprio stile personale. Non quello artificioso che cerchiamo per fare i fighi: no quello vero, il nostro stile naturale. Inoltre è prezioso per far venir fuori i contenuti che vi premono.
Ricordate? All’inizio, si diceva quanto sia importante scrivere di cose che per noi contano, trovare “ciò che ci disturba”. Facendo questo esercizio, prima o poi viene fuori. Come? In modi che non c’entrano nulla: un pomeriggio viene un’idea, sembra una come tante, dopo un po’ che ci lavorate dite “cazzo!”. Avete messo il dito su qualcosa che per voi è molto importante. Ed è successo nel periodo in cui facevate l’esercizio.
Voi direte: ma come può un esercizio così semplice, quasi banale, produrre tanti miracoli? Perché, semplicemente, crea un collegamento fra la scrittura e l’inconscio. Sgretola le difese, abbatte muri, fa svanire paure. Infatti l’inconscio per definizione si difende, si maschera, non ha voglia di farsi vedere: è nella sua natura, sennò non sarebbe un inconscio.
Con questo esercizio lo stanate, lo tirate fuori dal suo nascondiglio, prima una zampina, poi una mano, poi magari vi mostra un istante quel musetto che forse somiglia a E.T.
E sapete perché si fa vedere? Perché ha capito che voi non lo guardate, che scrivete solo i sogni che lui usa per esprimersi, che non cercate di disegnare lui ma le sue invenzioni e le sue maschere. Allora si fida, si scopre un po’, inizia a giocare con la vostra penna che scrive. Per questo è importante non cercare di interpretare i sogni che escono con l’esercizio. Se l’inconscio si accorge che cercate di capirlo, torna in tana. Lui è un inconscio. Se vi limitare a giocare con lui, “a chiacchierare” scrivendo quel che produce, lui viene fuori sempre un po’ di più.
Per questo poi, quando di giorno scrivete, vi avvicinate al vostro stile e ai contenuti che per voi contano. Siete più in contatto con l’inconscio.
Inoltre, se fate l’esercizio, vedrete che i vostri sogni cambiano, a volte anche parecchio: è il vostro inconscio che sta giocando con voi, tramite la vostra penna.
Non c’è da aver paura. Con questo esercizio, state tranquilli, non conoscerete il vostro inconscio. Lui non è mica scemo. Si lascia un po’ stanare perchè capisce che, grazie alla scrittura, può mostrarsi senza farsi svelare. E accetta di giocare.
Ma voi non saprete nulla di più dei vostri segreti profondi. Tuttavia questi segreti, sotto forme fantasiose, invieranno a contaminare la vostra scrittura.
E questo, se ci pensate, è il nocciolo di tutta la faccenda. Quando si dice che la scrittura deve avere una sua verità profonda, si dice quella roba lì. Deve aver a che fare con ciò che ci disturba. E ciò che ci disturba sta nascosto proprio lì, nell’inconscio: ce lo mettiamo apposta, perché non vogliamo vederlo.
Vedrete che facendo l’esercizio succedono cose strane, e divertenti: il vostro stile di scrittura cambia, dopo un po’ cambiano anche i sogni, la scrittura giorno dopo giorno si avvicina alle zone nascoste della psiche, e si arricchisce.
Se per mestiere scrivete (qualsiasi cosa, anche depliant per saponi) vedrete che facendo questo esercizio la scrittura migliora, diventa più personale, più viva, più densa. Più vostra.
Forse diventerà così vostra che non andrà più bene per i saponi, e quel giorno sarete felici. Insomma questo esercizio è davvero un’esperienza esaltante, inutile parlarne tanto, perché le esperienze si fanno e basta.
Tutto quel che c’è da dire è: gli altri esercizi sono facoltativi, questo no. E’ assolutamente obbligatorio per continuare il corso. Da oggi si fa il Dream Writing per un mese tutti i giorni, appena svegli, per almeno 15 minuti.
Attenzione però: se state leggendo questo corso e non fate l’esercizio, avete un problema. Ripeto, questo è il miglior esercizio di scrittura che conosco. Quindi delle due l’una: o non vi fidate di me, quindi vi sconsiglio di perdere altro tempo con questo corso. Oppure un pochino vi fidate, e allora questo esercizio dovete farlo.
Da domattina.
E se non succede niente, scrivetemi pure che fare l’insegnante di scrittura non è il mio mestiere. Tra l’altro, non lo è davvero. Sono novellino.
Scrittrice per ArteMuse Editore
D & M Gruppo editoriale